di Giorgio Taffon
Credo
non esserci dubbio alcuno che da anni, a millennio appena iniziato, nella
cultura letteraria italiana stanno assumendo rilevanza editoriale, valore di
scrittura, favore dei lettori, delle tipologie di scrittura narrativa del tutto
radicate nel vissuto autobiografico degli autori. Da Terzani a Saviano, da
Corona a Maffia alla Vighy, per citarne solo alcuni, le esperienze personali, i
riferimenti contestuali di vita, la ricerca interiore, la difesa dei diritti
civili, le radici geoantropologiche, costituiscono la materia prima
irrinunciabile, e garante di autenticità espressiva, su cui e con cui tracciare
i percorsi di scrittura e narrazione. Tale fenomeno, peraltro, è verificabile
anche nelle esperienze di drammaturghi e attori-autori che costituiscono un coté molto significativo del teatro
italiano d’oggi (come dimostra lo studio di Letizia Bernazza, Frontiere del teatro civile, segnalato
nel nostro sito). A fine anno 2009 l’editore Castelvecchi ha pubblicato Ocean Terminal, di Piergiorgio Welby,
affidandone la cura, amorevole appassionata e competente, al giovane Francesco
Lioce, dottore di ricerca in Italianistica e parente stretto e profondamente
“amico” dell’uomo e dell’artista (pittore, giornalista, scrittore),
Piergiorgio. Lioce, a fine libro, ripercorre la “storia” di queste pagine, che
hanno visto impegnato Welby soprattutto tra il 1998 e il 2002, ma con
interventi e aggiunte che arrivano fino a pochi mesi dalla morte, cercata voluta
“difesa”. Ocean Terminal si
accompagna a quella tipologia di opere a cui ho sopra accennato, naturalmente
con caratteristiche sue proprie sulle quali vado subito a scrivere.
La
prima è che il testo di Welby è incompiuto, come d’altra parte molte opere della
contemporaneità: si può dire, però, che il destino del libro segue quello
biografico dell’autore, pertanto la sua incompiutezza testuale testifica la
“compiutezza” della sua radicale scelta esistenziale: le pagine s’interrompono
dal momento in cui la malattia (la terribile distrofia muscolare) e la morte
impedirono all’autore qualsiasi intervento. Il testo venne così affidato a
Francesco Lioce e alla moglie Mina, affinché venisse pubblicato “dopo”, come
testimonianza di una vita così difficilmente dolorosamente intensa, come memorandum per chi resta, da parte di
una persona che ha vissuto esperienze estreme: la caduta nella
tossicodipendenza, la successiva risalita, l’affacciarsi e l’esplodere della
malattia, la sempre più invasiva ineluttabile fisicamente concreta prospettiva
della morte, di un nulla senza senso che costringe a dare perlomeno un qualche
senso all’esistenza. Un’esperienza decisiva, questa, perché ai “normali” gli
affanni e le cure della vita “normale” e normalizzata, l’essere immersi in un
contesto di vita preordinato e assolutizzato, impediscono di toccare i lembi
estremi della vita, di provare stati d’animo e sentimenti che sprofondano in
territori esistenziali altrimenti inesplorati.
Una
seconda caratteristica è data dall’essere, la scrittura welbiana, sospesa tra
ritmo narrativo e riflessione saggistica, altro segnale di una consapevolezza
attenta a illustri modelli novecenteschi. Se il “nulla” è l’approdo finale
occorre prepararlo, rendere “nuda” la propria vita, raccontandola ma parallelamente
demolendo tutti quegli idola,
ideologici etici di costume di modelli economici di morale sessuale, che
corazzano il nostro vivere e ci danno una serie di difese che lo giustifichino,
illudendoci di un tutto pieno, illudendoci della permanenza immutabile di noi e
delle nostre cose. Welby demitizza tali paradigmi, ironizza con sarcastica
riflessione sulle nostre illusioni, perché è al di là dell’illusorio tutto
pieno, sperimenta e vive appieno la concreta vicinanza di un tutto vuoto.
Giustamente Lioce richiama gli autori a cui si rifa Piergiorgio, rintracciabili
implicitamente (a volte in citazione), in molti passaggi del suo testo. In
letteratura i tragici greci col loro radicale sentimento che è male il venire
alla vita; Shakespeare e la sua convinzione che la vita sia una recita farsesca
senza senso, agita da seriosi buffoni; i narratori russi, in primis Dostoevskij, e la loro capacità di sprofondare nella
coscienza umana attraversandola senza alibi. In filosofia, Marx, Freud,
Nietzsche, Heidegger, i pensatori della scuola francofortese, Gadamer. Non
direi che tali autori suggeriscano una”filosofia” sistematica a Piergiorgio,
piuttosto ciascuno gli offre alcune chiavi per demolire “idee ricevute”,
paradigmi astratti, che dimenticano l’indissolubile rapporto fra biologico e
mentale, corpo e anima, pensiero e azione. Avviene così che i 114
<<episodi>> (talì li definisce appropriatamente Lioce) di cui è
composto il libro, alcuni brevissimi altri lunghi fino a 2 o 3 pagine, si
agglutinano o su immagini di vita, sensazioni, esperienze d’affetto d’amore di
eros, momenti di sofferenza fisica e morale, e siamo così nei segmenti più
narrativi; o si imperniano su riflessioni, giudizi, convinzioni espresse sulla
società sulla morale sul costume sul senso dell’esistere, e qui scatta la molla
che attiva i meccanismi di pensiero creando i toni di una scrittura d’impronta
saggistica.
E
a proposito di toni è giusto sottolineare anche il carattere di una sorta di
andamento musicale del libro welbiano, come di una partitura che ha un preludio
nell’episodio “fuori sacco” che precede il vero e proprio testo, un avantesto
che molto predice i temi che verranno sviluppati; poi avremo episodi “forti” ed
episodi “piani”, alcuni dal ritmo “lento”, altri “rapido”; alcuni segmenti sono
“in battere” (quelli più appassionati, più espressionistici), altri “in levare”
(lievi, sospesi, in controtempo). Come pure, ci suggerisce il curatore, il
testo offre delle punte espressive di natura più poetica, e lirica,
“verticali”, altre di carattere più prosastico, più costruito, “orizzontale”. E
anche per quanto riguarda i registri, assistiamo a una varietà con più
sfumature, dove direi essere assenti sia il tragico (si veda nello stesso
tematico Sull’origine della tragedia un
implicito rifiuto della stessa) che
il comico, cosicché si registrano l’ironico e l’autoironico, il sarcastico, il
parodico, il satirico, il lirico molto sfumato, molto controllato, raramente
l’elegiaco (ad esempio nei due bellissimi episodi dedicati al padre: Noi togliamo stranamente valore alle cose
e Ascoltavo, trattenendo il sospiro).
Certamente
nelle sue pagine Welby ha voluto ricostruire la “sua” storia, la trama
slabbrata, strappata, bucata della sua vita, per averne un barlume d’identità,
e qui la parola chiave è: <<superstite>>: se vi è una sua vera
identità essa è quella di chi è rimasto “sopra”, di chi è sopravissuto alla
tossicodipendenza, e di chi è sopravissuto, non mai arrendendosi, pe r molti
anni, ad una malattia inesorabilmente letale nella sua biologica scadenza.
Sopravvivere è anche “vivere sopra, al di sopra”, e Welby, anche grazie alla
sua scr ittura, è riuscito a cavalcare e in parte a domare il cavallo impazzito
e cattivo della malattia, e il cavallo nero della morte, affrontandola,
anticipandola, fuggendosene con lei, ma per rimanere, certamente non nel suo biòs, più vivo, per gli altri, per la
sua Mina, per Francesco, per noi che ora lo leggiamo, lo “leghiamo” a noi.
Nella
“sua” storia il biòs, il corpo, non
può che avere un posto essenziale: è il campo su cui prendono luogo i suoi
incontri d’amore, su cui corre il suo eros libero, su cui scorre, attraverso il
sistema circolatorio, la droga, ma anche la sua liberazione da essa, e su cui
infine prende posizione invincibile la malattia, coi suoi tormenti, le cure,
l’immissione dei farmaci tramite le flebo. Il suo corpo, nel libro, è
verbalizzato, spesso richiamando un altro grande sperimentatore di parole
fisiche e fisiologiche, Giovanni Testori; ed anche “disegnato” (si vedano
ancora le “teste” disegnate da Testori), come si può vedere nelle riproduzioni di alcune chine su carta
che il volume di Castelvecchi ci offre. Sono disegni che s-figurano il rappresentato: agiscono Bacon, agiscono i
surrealisti, per cui ogni singolo elemento della figura compone e scompone in
un coacervo di linee, di fasci di linee, l’immagine, creando repulsione,
spostando orridamente l’ordine anatomico delle parti del volto, dando il segno
ai capelli, alla barba, di uno scolare sanguinolento del volto. La stessa
scomposizione del corpo nella sua
interezza, il suo smembramento che richiama figure mitologiche appare in una
sorta di orribile onirismo nel brano che prelude al testo, Giorgio, il capo reclinato. Certamente c’è nelle parole di Welby
una rappresentazione anche bukowskiana della corporeità, intesa come energia da
spendere, da sprecare, da impiegare per il desiderio erotico, al di là di ogni
opzione etica e religiosa; come pure echi riverberano della prosa celiniana, in
un sublime rovesciato col quale le pulsioni sessuali divengono il trait d’union con la donna-femmina, che
appare in molti episodi figura scevra da sovrastrutture idealizzate, e il cui
centro focale è costituito dalla sua fisiologia e anatomia: parti anatomiche
femminili come sineddoche della donna e della sua attrazione sessuale
biologicamente destinante l’origine della creaturalità umana. Anche Kafka
sospinge l’immaginario welbiano, se la “sua” creaturalità non potrà mai
metamorficamente trasformarsi in animalità (<<Io sono sempre io e non avrò
mai la fortuna di risvegliarmi scarafaggio>>). C’è anche la donna
protettrice, l’Angela (omen nomen) di
alcuni episodi, la donna-rifugio, la donna-consolatrice, ma pur sempre
dispensatrice di godimento sessuale, come, da bambino, la statuina della
Madonna, dove la bocca aperta del serpente schiacciato è già prefigurazione
dell’immagine vulvare, di un ingresso nel microcosmo misterioso di un’assolutezza
vitalistica. Mi pare di poter dire che il corpo narrato da Welby lungo tutto il
testo sia un corpo trafitto, fessurato, bucato: dagli aghi delle siringhe e
delle flebo, dal tubo post tracheotomia, dalle endovene; per contrasto il corpo
femminile offre le sue naturali aperture all’esaltazione dell’eros. Ma ci sono
anche i corpi dei morti, oggetti estranei, cadavericamente privi di ogni senso
relazionale, se non quello memoriale che agisce in chi ancora fisicamente è in
vita.
C’è
nelle pagine di Welby anche il mondo della relazionalità umana e sociale: la
famiglia negli episodi relativi all’infanzia, la città di Roma negli episodi
della giovinezza e della maturità: una Roma per lo più periferica o marginale,
notturna, la Roma
degli anni Settanta e Ottanta, in cui un tossicodipendente viveva in stato
semiclandestino: non c’è autoindulgenza negli episodi relativi a questa
alienante condizione, a tale esperienza forte ed estrema, in cui ci si abitua
ad ogni evenienza, la più dura possibile. In tali passaggi la scrittura
welbiana rasenta un’autenticità
assoluta, ci sfida a denudarci di ogni autodifesa per vedere in faccia il vuoto
assoluto; la sua parola, spesso allucinata, spasmodica, febbrile, disperata,
analitica, raggiunge vette di un assoluto valore espressivo, è una parola che
disfa la vita negletta e reietta per rifarla daccapo, azzerando sulla pagina
ogni sorta di condizionamento. Decondizionarsi da ipoteche ideologiche e
politiche, da alibi moraleggianti, da modi di vivere imposti, sembra essere
l’estremo tentativo per riprendersi la vita autentica, e allora ogni
suggestione poetica, filmica, pittorica, possono portare l’autore, nello
svolgersi raccontato della sua esistenza, a nuove consapevolezze, a quelle
nuove conoscenze che man mano, come ci ricorda il curatore del volume, Welby
cercava di assimilare radicalmente, come unico varco di salvezza reale e possibile.
La conoscenza come atto mentale, poiché il corpo man mano verrà meno, quel
corpo che noi siamo, non che abbiamo. Perdere il corpo per una malattia
invincibile rappresenta il non dicibile, resta il silenzio assoluto di fronte a
tale estrema prospettiva, come è scritto al termine dell’ultima pagina del
libro.
Eppure,
per ripassare la propria storia, occorre narrarla, occorre verbalizzarla,
occorre una strategia stilistico espressiva che renda davvero efficace l’atto
dello scrivere: è necessario che la narrazione si identifichi intrinsecamente
in una lingua e che in questa trovi la propria ragion d’essere per divenire
“evento” letterario. La lingua, la
parola, di Welby, che qui meriterebbero ben altro spazio di analisi, mostrano
lungo tutto il testo alte doti inventive ed espressive. Tutti i piani del
discorso evidenziano gli sforzi riuscitissimi dell’autore di agire con
precisione e controllo, tali da garantire un sorvegliatissimo uso denotativo e
assieme connotativo della parola: i registri lessicali sono di un’estrema
varietà, giacché sulla base della lingua standard s’innestano i linguaggi
settoriali, il lessico d’impronta scatologica, l’uso sempre acutamente ironico
delle citazioni da gerghi, da modi espressivi di moda, provenienti dai
massmedia, dalla pubblicità, dal costume. Lo stesso linguaggio figurato
colpisce sempre il bersaglio assecondando una semantica dell’immaginario
paradossale, esplosivo, febbrile, allucinato, potentemente impressivo, tale da
assecondare il flusso elocutivo di una soggettività che si confronta con il
mondo, con gli eventi, per poi rielaborarli nel proprio foro interiore, sia
nella dimensione dell’emotività e del sentimento, sia in quella della
riflessività e della meditazione sulle “progressive” sorti della propria persona
come pure dell’umanità che la circonda. Si veda un solo esempio, cioè, a p. 58,
l’invocazione alla figura femminile con la quale poter sognare (<<… tu
sola puoi farmi sognare la fine di questa tragedia, tra le tue tette di panna e
nutella, sul tuo culo di pistacchio e amarena, tra le tue cosce al latte di
mandorle…>>) e si noti l’efficacissimo cortocircuito metaforico tra la
semantica dell’eros e quella del cibo.
Nel
titolo di questo mio intervento viene indicata una sfida. Da quanto ho sopra
scritto credo che sia facilmente comprensibile come l’opera di Welby non possa
non costituire anche una sfida per noi lettori: alle nostre idiosincrasie, alle
nostre ipocrisie, alle nostre convinzioni di vita, alle nostre sicurezze, ai
nostri alibi. Ocean Terminal, però, a
mio parere, può costituire anche una grande sfida per i teatranti, se solo
pensiamo che, se non tutti i testi sono teatrali di per se stessi, tutti sono
teatralizzabili. Il testo welbiano può costituire un materiale drammaturgico di
grande fascino per una “prova d’attore” che, appunto, richiede un approccio
libero dai condizionamenti correnti dell’attuale teatro italiano. Certo,
occorre una mano sicura nel trattamento drammaturgico del testo, che non
potrebbe che essere trasformato in monologo, ma sia la struttura verbale nella
sua vivezza, credibilità, efficacia, sia la grande tensione narrativa dovuta
alla profondità squassante dei temi, costituiscono una base di partenza credo
davvero positivamente decisiva. Anche a livello registico il proliferare libero
di immagini, i giochi immaginativi, la totale libertà inventiva, non possono
che trasmettere all’occhio e alla mente di un regista, grandi suggestioni di
creatività scenica. Io credo che la scelta di Ocean Terminal ai fini di un’elaborazione teatrale si ponga
inevitabilmente sul piano della tanto invocata quanto poco praticata ricerca di
un teatro davvero necessario. La voce
di Welby potrebbe rivivere reincarnata sulla scena per pronunciare le ragioni
prime ed ultime dell’esistenza umana, per invocare l’empatia degli spettatori,
per chiamare la comunità civile alla discussione sugli interrogativi ultimativi
e radicalmente umani, per divenire interpreti ed attori del nostro stesso
destino.
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